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Small Faces: intervista a Caterina Di Paolo





Ciao Caterina, parlaci di te.

Inibente.

Ripartiamo: Ciao Caterina, parlaci di noi, o di quello che vuoi e poi parlaci di te. È importante, dobbiamo promuovere il tuo libro. E aggiungi anche qualcosa di cringe. Così, giusto per seguire il trend.

Ciao. Mi chiamo Caterina e lavoro con i libri. Tantissimi anni fa mi sono laureata su Wittgenstein a Venezia, con una tesi che partiva dal suo saggio Esperienza privata e dati di senso (libro che forse in queste ore dramatoco potrebbe fare bene a non pochi). Poi mi sono trasferita a Roma e ho cominciato a lavorare come redattrice, prima in una casa editrice di narrativa e poi in una per l'infanzia. Poi ho capito che la correzione di bozze e l'editing per quanto bellissimi non erano il mio unico interesse e mi sono licenziata, causando reazioni scomposte nella mia famiglia. Ho provato a entrare all'ISIA di Urbino e per fortuna è andata bene. Mi sono laureata in Comunicazione e design per l'editoria con una tesi illustrata sui giganti – un interesse nato quand'ero alle elementari e ho visto per la prima volta un san Cristoforo. Tra i giganti c'è anche Cristina Campo, che a fattezze gigantessa non sembra – e invece.

Mi sono laureata con Mauro Bubbico e Gianluigi Toccafondo, che mi ha insegnato tutto il pochissimo che so sul disegno.

Adesso di lavori ne faccio tre: la redattrice, la grafica e l'illustratrice. Nel 2017 ho illustrato il libro Lupus in fabula uscito per Erickson, con uno stile simile a quello della mia tesi. Ora sto illustrando la serie Storie nella storia pubblicata da Settenove: una serie di libri scritti dalla Società italiana delle storiche, sul tema della storia egualitaria. Sono molto legata a questo progetto perché mi ha portata in giro a conoscere realtà bellissime che si occupano di lotta alla violenza di genere, perché mi ha dato la possibilità di parlare di femminismo e disegno con i bambini e perché è un ottimo modo per colmare innanzitutto le mie lacune storiche. Sono usciti i volumi sulla preistoria e la mesopotamia ed è in preparazione quello su greci e romani.


Faccio parte di un collettivo che si chiama BEKKO con cui produciamo M.O.L.L.A., il giornale per bambini molleggiati, e Frute, rivista femminista. 

Secondo me in queste righe c'è già del cringe involontario (il cringe volontario non so se si possa fare), chioso comunque riportando quanto mi ha detto mio fratello Felice (colui che tutto mi insegna e tutto sa del mondo memico dei giovani, e che per quanto io sia indubitabilmente una noob dovrebbe comunque avere un debito di gratitudine con me per quel disco dei Kyuss che mi rubò quando era nei suoi anni più verdi): parlare di cringe è esso stesso cringe.

Di voi posso dire solo che mi piacete tanto.

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D: Che dire di Small Faces? Sono dei ritratti estemporanei che fai quando stai in giro. Abbiamo provato alcune formule, aggiungere frasi, togliere frasi, mettere mezze frasi, a giocare con la grandezza ma alla fine c'è solo che funzionano benissimo da sole. 

Grazie 

Io cerco di disegnare sempre, quindi ho sempre con me un quadernino e un piccolo astuccio. Se uno disegna sempre capisce cosa gli piace di più – e a me quello che piace di più sono le facce, perché ogni faccia è composta da poche variabili eppure ognuna è così diversa. Una cosa che poi a pensarci è ancora più assurda sono le somiglianze di famiglia, come le chiamava Wittgenstein: il fatto che nelle famiglie (e nelle somiglianze in generale) non è un particolare a essere simile ma più un rapporto di particolari tra loro. Le somiglianze rendono ancora più sorprendente il già sorprendente mondo delle facce.

Siccome il nostro cervello coglie il tutto e non il particolare, per fare un ritratto somigliante non si deve indugiare nei particolari quanto avere chiara la forma generale: la forma del viso, la posizione degli elementi nel viso e la posizione relativa tra una parte e l'altra. È bello disegnare facce perché non sai chi hai davanti e perché le facce si muovono, quindi devi carpire una cosa che non puoi guardare a lungo  – e alla lunga diventa ancora più chiaro che una faccia non la fa la forma dell'orecchio o dell'occhio, ma qualcosa che non si afferra.

La mia faccia preferita del 2019 era un signore sui sessanta che ho visto ad Amorgos, in Grecia, mentre cenavo per strada. Era pelato con delle sopracciglia molto folte castano scuro, aveva una pancia rotonda ma per il resto era magro, con la pelle del collo un po' cadente. Aveva gli occhi castani e le borse sotto gli occhi. Credo conoscesse la cameriera perché si sorridevano e parlavano. Aveva l'aria di una persona avvezza a star da sola, contenta. Teneva la camicia un po' aperta e sotto si vedeva la canottiera, aveva un sigaro piccolo.

Mi piace disegnare facce perché descrivere un viso e disegnarlo sono due cose molto diverse e io non sono Primo Levi, che a mio parere descrive le persone come nessun altro.

Mi piace disegnare facce per quella frase di Flaiano: «ricordarsi i sorrisi di tutti. Bambini, donne, ragazzi, uomini.»
Sono davvero felice che Antonia mi abbia proposto di pubblicarle, e il libro mi sembra davvero bello.





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Visto che sei caporedattrice di «Progetto grafico». Secondo te, questa è una domandona eh, cosa può fare il design e la comunicazione visiva in questo momento?

Nell'ultimo periodo mi pare ci sia un po' una tendenza a fare discorsi alla nazione, forse perché mi sembra che io stessa ogni volta che cerco di parlare della situazione in cui siamo tendo a virare sul discorso altisonante, sul sistema, su quello che cambierà o che è già cambiato. Però quello che posso dire cercando di essere più sincera possibile è che mi sembra che siamo in mezzo a un cambiamento epocale, e non ho davvero idea di cosa io, o il design, o la comunicazione visiva o le cose di cui mi occupo possano fare in questo momento. Ma neanche in generale saprei dire cosa possano fare.

Posso dire che con «Progetto grafico» stiamo facendo un lavoro soprattutto sulla prospettiva: chiediamo e cerchiamo contributi molto ampi o molto particolari sui temi che lanciamo, stiamo molto attenti alla voce con cui i contributi vengono narrati e proposti. Ogni numero causa un dibattito vivo e acceso in redazione, e di questo sono molto felice. Ora stiamo chiudendo il numero sul Profano, fratello del numero sul Sacro (procediamo per coppie di numeri, con temi in contrasto). Tempo fa a una presentazione del numero sul Divertimento con il mio collega, amico e grande musicista Michele Galluzzo abbiamo avuto diverse domande su quale fosse il buon design. Ecco: per noi la prospettiva del buon design, o del design giusto, non è la chiave di lettura più interessante. Ci interessa molto di più fare ricerca, magari sbagliando o facendo qualcosa di non perfettamente intonato. Per questo in ogni numero stiamo cercando di dare spazio a temi tangenti la grafica, di osservare i grandi nomi in tralice, di dare spazio ad esempio agli adesivi delle discoteche della baia di Rimini e nel numero dopo al Cardozo Kindersley Workshop e al loro lavoro meraviglioso di incisione calligrafica su lapidi. Non per un gusto dell'inaspettato, ma per dire che ogni forma particolare può essere un valido spunto di ricerca, l'inizio di una discussione.

È davvero bello lavorare in questa rivista, con una redazione fatta di teste tutte diverse e tutte attivissime.

C'era una bella frase di Man Ray che diceva qualcosa tipo: «l'arte non serve a niente – quante volte abbiamo sentito chiedere "c'è un artista in sala?" nei vagoni di un treno?».

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Ecco. Posto che io lavoro con i libri e quindi credo, in modo sottinteso ma forte, che conoscere Gianni Rodari o Tove Jansson possa migliorare grandemente la vita, e sono anche sicura che l'interruttore rompi-tratta sia un'invenzione che ha migliorato la vita pratica di moltissimi sulla faccia della terra (e che ha dietro di sé una bellissima storia di design quasi zen), mi piace pensare che la cosa più importante nelle cose di cui mi occupo – come il disegno, la scrittura, la progettazione, la forma delle lettere, la forma di una lampada, la scrittura di una frase... La cosa più importante sia scomparirci dentro. Farci scomparire noi stessi dentro. Ecco, a me piace disegnare perché ci scompaio dentro, come scompaio dentro a un libro o dentro alla forma di una M bellissima incisa da qualcuno nella pietra. Scompaio a volte nell'azione mia a volte nella contemplazione dell'azione altrui.

Quindi cosa possono fare queste cose? Niente, non servono a niente, sono cose belle. Le cose belle non devono servire a niente. Possono far star bene un altro, o possono far credere a qualcun altro che si possa pagare l'affitto con le cose belle, così magari farà cose belle anche lui e saremo sempre in più di noi disadattati. Ma la prospettiva della loro utilità non è la più importante, secondo me.

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D: A che punto stanno i mila lavori che stai seguendo?

Beh, stanno come al solito, con qualche rallentamento. Lavoro nell'editoria con una partita IVA, quindi sono abbastanza abituata a una certa dose di precarietà. Cerco di non farmi prendere troppo dall'ansia dei nuovi contatti che volevo creare (mi sono trasferita a Milano esattamente due settimane prima del lockdown – sì, grazie dei complimenti per il tempismo) e cerco di proseguire con quello che avevo in programma, tra cui il nuovo numero di M.O.L.L.A. (sul tema del Corpo), Frute numero 4, il prossimo «Progetto grafico» sul tema del Profano... Sto all'occhio. Dire che tutto è come prima sarebbe stupido perché non lo è, ma cerco di mantenermi calma e fare un passo alla volta.

Una volta che tutto questo sarà finito faremo una bella presentazione a Bologna, berremo tanto e ci daremo un sacco di abbracci.