Il curioso disagio dell’alleatə

di Stefania N'Kombo, attivista


Una doverosa Premessa

Carə Amici ed Amiche bianchə. Non voglio essere ipocrita parlando di bianchi e neri in terza persona: sono una donna nera, faccio militanza all’università, mi trovo sempre in contesti in cui la maggior parte delle persone non appartengono alla mia etnia e quando si parla di razzismo come fenomeno storico, atteggiamento politico e problematica culturale, non posso fare finta che non sia una cosa che riguardi entrambe le parti. 

In questi mesi ci siamo scambiatə tanti pensieri, commentando quanto accadeva attorno a noi, fra il ragazzo di Vicenza arrestato violentemente, il blackface di Di Maio ed i vari articoli che si sono susseguiti sulla questione del privilegio. Alle mie affermazioni esplicite tipo “un meme può effettivamente essere razzista” o “l’appropriazione culturale è un problema”, avete risposto bombardandomi di messaggi fra instagram e facebook. 

Ho letto che siete statə colpitə dal mio accentuare l’esistenza delle differenze, che sia difficile accettare di non essere più liberə di dire o fare ciò che vi pare, se questa libertà risulta essere escludente rispetto ad altre sensibilità. Ma, soprattutto, quando ho descritto un’azione in quanto razzista, per un retaggio culturale che legittima solo il privilegio di una persona bianca, ho letto fra le righe di certi commenti una domanda: “Stefania, io ho fatto questa cosa, ma non per questo sono razzista…Vero?”. 

Carə amici ed amiche bianchə, intendiamoci, mi fa piacere vi sentiate tranquillə a discutere con me, ma se questo confronto nasce anche dal bisogno di sentirvi dire che non siete razzistə, allora è necessario chiarire una cosa: non è né compito mio né di qualsiasi altra persona nera assumerci la responsabilità delle vostre azioni. Abbiamo già abbondantemente indicato il modo per dotarsi degli strumenti necessari per gestire correttamente il vostro privilegio – qualche suggerimento lo troverete continuando a leggere. Non possiamo più assumerci la responsabilità della cura della vostra ingombrante white fragility; ingombrante perché stiamo riducendo il dibattito sull’antirazzismo ai problemi di riconoscimento del razzismo stesso da parte dei/lle bianchə.

Carə amici ed amiche bianchə, non voglio precluderci la possibilità di crescere e educarci insieme, ma, se il confronto è spinto dalla paura di essere razzista sappiate che non devo essere io a fornirvi una risposta assolutoria e che è ingiusto anche solo aspettarsela. Sarebbe la ricerca egoistica di una soluzione ad un senso di colpa che è solo un problema di chi lo prova. 

Si può aver fatto qualcosa di lontanamente razzista in passato? Sì e non sarà la mia presenza nella vostra vita ad attenuare la cosa (N.B. La frase “Ho un amico nero” non espia nessuna colpa!), sarà la vostra capacità di affrontare questa difficoltà a migliorarvi. Carə amici ed amiche bianchə ora sta a voi capire come oltre a non essere razzistə, possiate essere antirazzistə. È un lavoro difficile, ma si può fare.

Non mi scuso per la premessa e, senza alcun rancore, auguro una buona lettura.


Atto I: L’AlleatƏ

Dal transfemminismo alle rivolte della comunità afroamericana negli Stati Uniti, passando per il Pride Month: da donna nera e militante, questi ultimi mesi hanno fornito spunti di riflessione su cosa significa lottare e su chi possa definirsi miə alleatə, o ally. Intendo chi decide di ripensare il suo privilegio rispetto ai soggetti oppressi mettendolo al servizio di una lotta che porti alla parità dei diritti. Sembrerebbe semplice, no? Eppure, nonostante le buone intenzioni, troppo spesso si riscontrano comportamenti o semplici affermazioni in contraddizione con la definizione. Personalmente l’ho riscontrato anche e soprattutto fra chi si definisce “mio alleato”. Spesso trovo in un commento di questə miə ipoteticə alleatə, la contraddizione fra le sue azioni e le reazioni.

Quando l’ally è soggetto attivo delle proprie azioni mette in pratica tutto ciò che ha imparato nella sua formazione di persona di sinistra: e.g. nessun insulto sessista o razzista nelle iniziative o nelle assemblee, grande attenzione alla questione di classe e così via. In una situazione di questo tipo è facile trovare una concordanza di intenti, di modalità e di pensiero con le azioni delle cosiddette minoranze, tipo la sottoscritta. Le principali discordanze escono soprattutto nel momento in cui si analizzano le reazioni dell’ally nelle situazioni in cui non è soggetto attivo del dibattito. Analizziamole insieme.

Atto II: L’alleatə vs Catcalling

Il catcalling ha bisogno di un’analisi del contesto per essere riconosciuto. Una delle discriminanti può essere il fatto che la persona destinataria dell’ “Ehi bella!”, possa essere soggetto passivo da cui si aspetta una reazione –  un “Grazie” o un “Chittesencula” – oppure un semplice oggetto dell’apprezzamento. Chiaramente nel catcalling, in cui lo pseudo apprezzamento si consuma in un qualcosa detto di passaggio, senza dare all’altra il tempo di poter realizzare chi sia l’autore del commento e rispondere, non c’è un soggetto passivo da cui si aspetta una reazione, solo un oggetto. Su questa forma di violenza, l’ally commenta: “Ma allora non siamo nemmeno più liberi di fare un complimento per strada?”. Hint: la risposta è “NO”.

 

Atto III: L’alleatə vs la rimozione dei simboli del colonialismo. 

Stati Uniti, giugno/luglio. La violenza esplosa nelle strade si è concretizzata nella necessità di entrare in un confronto diretto con una storia fatta di oppressione e schiavismo. L’atto di toglierne i simboli e sostituirli con monumenti che narrino la resistenza all’oppressione ha restituito protagonismo a figure sconfitte dalla storia occidentale. Di fronte a tutto ciò, l’ally, che la rivoluzione l’ha sempre voluta, afferma: “Dovreste trovare un modo per far sentire la vostra voce senza distruggere i monumenti o saccheggiare, così finite dalla parte del torto e fate il loro gioco.La storia è storia.”
Hint pt. 2: grazie per i suggerimenti, ma continueremo così.


Atto IV: Il privilegio

Le due reazioni hanno in comune una reticenza ad accettare la presenza di altri attori nei mutamenti sociali, che ci siano nuovi soggetti a stabilire quali siano le regole del gioco: se ti sei sempre sentitə “liberə di…” ed alcune pratiche, ad esempio, femministe sembrano limitare la tua libertà, è perché questa si è sempre basata su un privilegio, ovvero sull’assenza di quel particolare diritto per altrə. È facile far propria una causa e mettersi dalla parte delle minoranze, ma senza il riconoscimento del privilegio non c’è una reale comprensione di tutte le dinamiche di oppressione, del sentire di determinate persone. Prendere atto del proprio privilegio comporta una responsabilità: non come colpa, la colpa si risolve facilmente con un atteggiamento pietista, e.g. “Povero ragazzo nero oppresso dal sistema = non-farò-nulla-però-mi-dispiace-molto”. Responsabilità qui, invece, è intesa come presa di coscienza della propria posizione e del peso delle proprie azioni. Non interrompere mentre una donna sta parlando durante una riunione di lavoro, scegliere di non provarci con una ragazza che conosci poco e che stai accompagnando a casa dopo una serata, mettersi fisicamente fra un poliziotto ed unə ragazzə nerə, chiedere di controllare i propri documenti nel momento in cui ci sono perquisizioni a tappeto nei confronti di persone non caucasiche: sono tutti atteggiamenti che dimostrano la consapevolezza di avere un privilegio e la capacità di riuscire a ripensarlo.

Atto Finale: Non sei  protagonista della storia.

Chi non era un uomo bianco, cis ed etero, fino ad ora, è stato semplice oggetto che subisce l’istituirsi di un certo tipo di società senza mai poterla determinare. La richiesta di parità dei diritti coincide con il rivendicare il ricollocarsi come soggetti della storia, partendo dal protagonismo all’interno del movimento per ripensare delle pratiche ed anche un linguaggio che riesca ad essere inclusivo. A questo punto la faccenda si fa complicata, poiché se sull’utilizzo del privilegio l’ally è ancora un soggetto attivo, qua si sta chiedendo invece di porsi nella dimensione dell’ascolto e di stare anche a guardare, se necessario. Per chi è abituatə a poter stare in prima linea risulta difficile comprendere che, invece, il colore della pelle, il genere o lo status sociale possano inibire un’altra persona a parlare – come il fenomeno del mansplaining dimostra – e che delle volte è necessario farsi da parte, evitando quel fastidiosissimo atteggiamento paternalistico del dare istruzioni sulle modalità di lotta. 

Se vuoi essere alleatə devi capire che questa lotta è anche tua, ma non ne sei protagonista.

Nessuno vuole opprimere tutti gli uomini etero cis bianchi borghesi, come è successo alle altre minoranze. Ciò che si sta chiedendo è una nuova postura che non silenzi in alcun modo chi, finalmente, ha trovato il coraggio di parlare, perché, fidatevi, se non sei un uomo bianco etero cis, saranno gli sguardi delle persone per tutta la vita ad insegnarti che ciò che dici è meno sensato di quello che può dire la controparte privilegiata. Ora ci sono tante persone che stanno alzando la voce e con rabbia: non spaventiamoci, organizziamola!