non è una newsletter, non è un libro, è chiaramente un gerbillo
Editoriale
Critica + rosica
È possibile fare critica culturale? E se sì, come? E se no, perché? E se fosse imprescindibile dalla critica della produzione culturale?
A latere di una suggestione sollevata da Antonia Caruso sul suo personalissimo profilo Instagram, in questo editoriale che inaugura Gerbillo, lei e Silvia Gola discutono di questi temi: ci sono le virgolette ma non l’attribuzione dei nomi accanto alle varie frasi perché è questa la natura del pensiero: fluire senza bisogno di nomi e cognomi, un po’ come la dissoluzione dell’autore di cui parlavano i Luther Blissett.
Con questa chiacchierata apriamo il numero zero della nostra newsletter dove proveremo, a ogni uscita, a declinare un tema spinoso (rosa rosæ rosæ), sfruttando le potenzialità intrinseche ma non magiche della posizione marginale. Ma marginale in che senso? Esiste un margine se pure intorno a quel margine esiste una rete di solidarietà, coalizioni, collaborazione (ma non collaborazionismo)? E se un margine si definisce in base alla distanza dal centro, individuare questo stesso centro è fondamentale?
Questo e molto altro nell’editoriale qui presente e in quelli che verranno.
- Riuscire a sfruttare questa posizione marginale per dire ciò che gli altri non dicono.
- Ce lo nascondono...
- Cosa?
- Non lo so, se non ce lo nascondessero lo sapremmo.
- Ci sono marginalità però che una rete intorno ce l’hanno.
- Eh, però tu per marginalità che intendi, allora?
- Non vorrei fare tipo un manifesto. Perché i manifesti poi li devi seguire.
- Sì, e poi meglio non dire troppo.
- Quindi quello che gli altri non dicono, ma non dirlo troppo.
- Mi sembra un ottimo punto, perché poi se dici una cosa e poi non la segui... Ci fai una figura di merda.
[...]
- Se tu prendi La Lettura, ad esempio, quello è proprio l’establishment.
- Però io quello neanche lo considero più.
- Perché?
- È un altro mondo, è troppo lontano. Cioè, per me gli altri più prossimi sono Lucy sulla cultura, tipo. I miei “altri” sono più piccoli, più vicini alle cose che facciamo, sono fintamente-non-establishment, perché poi se li guardi bene lo sono del tutto. Cioè, come dire: quegli ambienti, quelle realtà da cui ti aspetteresti un certo tipo di discorso critico sul sistema eppure…
- No, è che stavo riflettendo che non vorrei fare quelle dure-e-pure, no? Tipo noi-contro-il-mondo.
- No, no, infatti, per questo dicevo “quello che gli altri non dicono” è un ottimo slogan, però secondo me dobbiamo capire che cos’è che non dicono gli altri. Non per dirlo per forza, eh…
- Sì, anche solo per saperlo. Per esempio: come si fa a dire “Lucy è establishment culturale” ma senza rancore, cioè come un’analisi. Ecco ciò che vorrei. Quindi la domanda adesso è: come facciamo a dire che è quella roba là senza sembrare rancorose?
- Perché potenzialmente – volendo – noi potremmo pure arrivare a Lucy. Cioè, non è così distante…
- No, no, esatto. I gradi di separazione non sono così tanti.
- Sono minimi, spesso è uno. Siamo in un settore in cui in molti casi i gradi di separazione sono massimo due.
- Però in questo contesto qual è il contrario di establishment? Cioè, Lucy che aspetto vuole darsi? Apparire accessibile?, à la page?
- Non lo so. Cioè…
- Qual è la domanda di fondo che hai fatto prima?
- Come si fa a dire che Lucy è establishment senza rancore.
- Ah, okay, giusto. Quindi questa non è critica culturale, è addirittura critica della produzione culturale: cioè, non tanto il prodotto ma il processo che ci sta dietro e lo rende possibile. Come nasce un’opera, chi può permettersi di farla, quali strutture la sostengono.
- Perché spesso si dà per scontato che ciò che arriva in libreria, a teatro, nei festival sia lì perché valido, meritevole, “naturalmente” emerso. Ma il punto è proprio questo: niente emerge naturalmente. Tutto passa attraverso filtri – economici, sociali, relazionali – che decidono cosa si può produrre e cosa no.
- E lì si apre un problema enorme. Perché se guardiamo bene, a produrre cultura è sempre più spesso chi ha già accesso a certe risorse: tempo, soldi, contatti. Non è solo questione di talento. È questione di poter stare dentro certi ambienti, accedere a certi canali, sostenere certi costi.
- Pensa a istituzioni come la Scuola Holden. Si presentano come spazi per nuove voci, ma richiedono un investimento economico altissimo. E così, de facto, escludono tutte le altre persone.
- E non è solo la scuola in sé: è il modo in cui si costruisce un’idea di legittimità culturale. Chi esce da certi percorsi viene automaticamente considerato “format*”, credibile, pronto a pubblicare, a ricevere attenzione. Chi ne resta fuori, anche se ha qualità, rischia di non essere nemmeno visto.
- Quindi sì, è una critica che va alla radice del sistema. Non stiamo dicendo “Questo libro è brutto”, ma “Chi ha deciso che valeva la pena di pubblicare questo libro, e su quali basi?”, “Chi ha il potere di dire che è brutto?”. Quali dinamiche favoriscono certe estetiche, certi temi, certe persone.
- Spostare lo sguardo sul processo serve proprio a questo: smontare l’illusione della neutralità. La cultura non è mai neutra. È sempre il prodotto di un contesto – e di chi quel contesto lo controlla.
- Giusto. Però anche partendo da qui, la domanda che mi faccio è: è possibile una critica culturale senza che sembri una rosicata? E facendola dall'interno, non da fuori? Perché quella che chiamiamo "rosicata" ha sempre almeno due strati. Uno personale – tipo: "Se ci sei tu, non posso starci io". E quel "io" è proprio chi parla. Ma anche uno politico: quel "io" può rappresentare un'intera categoria, dentro cui rientra anche chi parla.
- Aspetta, cioè? Intendi una cosa legata alle identity politics?
- Non è tanto una questione di politica identitaria in senso stretto. È più legata al numero limitato di posti disponibili – che non sono infiniti – e alla questione economica. Non parlo di simboli o quote, ma proprio del fatto che ogni ruolo – un ruolo attoriale, una presentazione, una presenza a un festival – è uno solo. E se quel posto lo occupi tu, non c’è più per un altro. È un fatto economico, anche se non monetario: perché in gioco c’è comunque il capitale culturale.
- Ok, ma allora non è normale che una critica contenga anche un pezzo personale e uno politico? Mi pare inevitabile, no?
- Sì, infatti. Secondo me è pacifico che la critica abbia una componente emotiva-personale e una socio-politica, se vogliamo schematizzare.
- È proprio per questo, però, che parlo di rosicata.
- Capisco. Però secondo me si può fare una critica senza che sia ridotta a quello. E poi, se ci pensi, ‘rancore’ è una categoria che in parte ci siamo inventati noi, o almeno l’abbiamo resa centrale. Non che prima non esistesse, ma mi pare che da qualche anno – forse da quando è sbocciato il Movimento Cinque Stelle – nel discorso pubblico si sia inserito qualcosa di nuovo: ogni critica viene subito letta come frutto di rancore personale. Come se non potesse esserci mai solo una questione politica.
- Aggiungo anche che la rosicata, proprio come reazione emotiva, non è socialmente accettata. O meglio, il risentimento per qualcosa non è considerato un sentimento nobile, come per esempio la rabbia.
- Ti faccio un esempio che per oggi mi ha confermato un po’ questa idea (sulla
- quale però non sono d’accordo, ma vabbè). Qualche tempo fa Loredana Lipperini ha scritto su Facebook che Adolescence non le era piaciuto. Oggi mi trovo su Lucy un suo pezzo dove, recensendo negativamente la serie tv, scrive anche “Non riusciamo più a valutare i prodotti culturali”. E allora ho pensato: “Ma possibile che, partendo da una semplice rosicata personale – cioè dal fatto che le è capitato di non essere d’accordo con quanti hanno detto che la serie tv era un capolavoro – si arrivi a concludere che non siamo più capaci di valutare i prodotti culturali?”.
- In che senso?
- È come se, partendo da una rosicata del tipo: “Sono in minoranza, stavolta il sentimento collettivo va in direzione opposta alla mia percezione”, si passasse subito a fare critica culturale con grandi domande tipo: “Perché non sappiamo più valutare i prodotti culturali?”. Ma non dovrebbe funzionare così: essere in minoranza non equivale automaticamente ad avere uno sguardo critico. La postura critica dovrebbe valere sempre, non solo quando ci si sente controcorrente. E poi è difficile criticare le persone amiche, o quelle che si vuole far diventare amiche, o quelle persone che ricoprono ruoli potenzialmente interessanti per te.
- Cioè, tu dici che è possibile fare critica senza rosicare.
- Io voglio solo rintracciare che il fatto che ci sia una stretta equazione che vale sempre tra ‘critica’ e ‘rosicata’ è una cosa che abbiamo codificato da meno di un decennio.
- Nel mondo dell’editoria a fumetti, ad esempio, questa equazione sembra essere fondante qualsiasi interazione si venga a creare; a quanto pare è impossibile scindere la critica fatta a un prodotto editoriale dalla rosicata se ti esponi da un margine verso il centro.
- Eh, okay. Però per me il punto è che la rosicata deriva dal fatto che ci sono delle dinamiche che ti impediscono l’accesso e quindi rosichi. È che si è creata un’élite inaccessibile e quindi rosichi.
- Ma la domanda più profonda che continuo a pormi è: perché oggi, ogni volta che usiamo la parola ‘critica’, rischiamo che questo gesto venga subito interpretato come invidia o risentimento? In questo vedo due fenomeni distinti – da un lato un fatto culturale, dall’altro una percezione diffusa – ma non è scritto da nessuna parte che criticare è rosicare. Poi delle volte evidentemente succede, però è un epifenomeno – il rosicamento non è la radice stessa della critica.
- E questa confusione tra critica e risentimento si riflette anche nelle reazioni concrete: per esempio, poco tempo fa ho scritto due recensioni negative a due libri, e in entrambi i casi le autrici mi hanno scritto in privato dicendomi che non avevo capito. Il fatto che queste risposte arrivino in privato – anche se la critica era pubblica – è, secondo me, un altro livello interessante da analizzare. Prima magari scrivevi al giornale, e c’era una possibilità di replica pubblica, visibile, parte del confronto. Oggi no: la reazione si sposta sul piano personale, e in quel passaggio si perde qualcosa del senso collettivo del criticare.
- Era, come dire, incorniciato, contestualizzato, in un certo senso.
- Adesso ti perdi tutto: perché se tu scrivi qualcosa e poi non segui il flame o la “questione” nei commenti, te lo perdi. E quindi, di fatto, il valore della critica che ha generato una discussione viene ad annullarsi.
- Fino a qualche decennio fa, se si voleva essere informate sui fenomeni culturali del momento, si leggevano quei 3-4 giornali ed eri a posto.
- E quindi c’erano maggiori possibilità che tutti leggessero dello stesso fenomeno culturale del momento. Adesso spesso ognuno lo fa dai propri profili privati, e se ti dice bene l’autrice ti risponde in pubblico, se ti dice male, diventa un affare privato.
- Effettivamente, quanto spesso lo vedi succedere? Che le persone scrivano negativamente dei libri in pubblico?
- Il problema è che siamo sempre noi. Siamo un circolo così chiuso che non ci si critica mai veramente perché una volta io sono quella che traduce, una volta sono quella che scrive, la volta dopo sono quella che scrive la recensione. E così via, nell’infinito scambio di favori culturali.
- Poi, è più facile parlare di quelli belli, cioè dei libri che piacciono. Anche perché, voglio dire, esistono delle ragioni sistemiche per fare questo: visto che le recensioni non pagano molto, visto che c’è l’iperproduzione... mettersi a leggere una cosa che so già che odierò, o che mi è indifferente per tematica, o per il quale non nutro un particolare interesse... è molto più dispendioso, mentre leggersi un libro che comunque volevo già leggermi per motivi personali… è più facile, ecco. C’è un principio economicistico, di fondo, alla fine.
- In generale, quindi, non c’è molta critica in giro. Se decido di evitare un libro è perché qualcuno magari privatamente me l’ha detto e non perché ho letto un articolo che lo cassa, ed ecco come torna il concetto di ‘critica come affare privato’.
- In maniera non rancorosa, ovviamente. Perché tu ce la vedi sempre un po’ ‘sta venatura di rancore… Ma ce la fai a farmi un esempio di persona che tu trovi che fa critica tra le amicizie, i contatti, i giri, ma non è rancorosa?
- Mi viene in mente che le persone di cui apprezzo la scrittura sono persone altrettanto inserite in quei circuiti là. Non necessariamente famose, ma dentro a un certo giro, riconosciute, leggibili da chi conta.
- Sì, perché tu prima parlavi di circuiti, ma per me lì si apre proprio la questione dell’élite: c’è un tipo di editoria dove la gente effettivamente guadagna degli sghei. E questa, per me, è l’inaccessibilità vera: la linea tra chi riesce a vivere di questa roba (qualunque cosa sia) e chi no. È ovvio che la persona che oggi scrive sul Tascabile possa domani pubblicare un libro per Einaudi…
- Il punto non è semplicemente pubblicare un libro, ma entrare in quel giro per cui Durastanti o Uyangoda parlano di te su Internazionale. Lo scarto non corre tanto tra chi è arrivato e chi no, ma tra chi viene recensito – e soprattutto tra chi sta dove girano i soldi. L’accessibilità vera è farsi spazio nel discorso pubblico, cioè ottenere quella recensione nei luoghi dell’establishment.
- Già, ma non è solo una questione di visibilità editoriale: c’è anche il piano relazionale. Non basta scrivere sulla stessa rivista o farsi recensire – serve frequentarsi. Farsi vedere all’aperitivo, costruire relazioni. È lì che si rafforza la tua posizione nel circuito.
- Esatto. E allo stesso tempo l’élite, per mantenere e riprodurre la sua posizione, deve per forza aprirsi poco e dosare i privilegi. Ti ricordi una volta quando si facevano le antologie di esordienti curate da qualche grande nome o da un marchio editoriale riconosciuto? Era un modo per dare un’illusione di apertura, ma restava un filtro preciso: pochi dentro, tanti fuori.
- Una cosa molto diversa che vedo invece nella stand up – e che non succede in editoria – è che qualcuno tra quelli più in vista si fa la propria “scena”.
- Fare l’opening è un po’ quella roba lì, tutto sommato...
- Sì, decisamente, anche se esistono delle modalità più dirette e collegiali per dire al pubblico: “Ecco qua, questa è la mia proposta di comicità”. In editoria non c’è molto questa dinamica di “piccolo” e “grande” insieme...
- Prima c’erano le prefazioni, tipo quelle de I Classici Garzanti: prefazioni che ti portavano anche uno studio critico del libro. Adesso ’sta roba non si fa più.
- Detto ciò, il parallelo con la stand up è calzante perché secondo me la democratizzazione che c’è nella stand up assomiglia molto all’iperproduzione dell’editoria.
- Comunque: le antologie adesso si usa più farle molto meno. Per certo so che i racconti che destano sempre qualche perplessità nel mercato editoriale (leggi: non vendono).
- Di recente è uscita una raccolta di giovani under 30 iraniani...
- Oppure Sciroccate di Tamu...
- Sì, o anche uno dei primi titoli della casa editrice di Alessandro Cattelan, Accento edizioni, era una raccolta di under 25.
- Comunque la questione delle antologie è interessante, anche perché è una delle possibilità di entrare nel settore. Di questo, tra l’altro, anni fa ne parlava un botto Vanni Santoni, che sicuramente ha il pregio d’aver provato a creare una scena italiana. Gli chiedevano sempre “Eh, ma come si fa a essere pubblicati?”, e lui spesso rispondeva che il mezzo più rapido e democratico era scrivere sulle riviste, come pure controllare le call per le antologie. Però, secondo me, si tratta di interviste del 2017-2018, quando forse le antologie esistevano un pochino di più. Quindi forse era una via anche promettente, e magari lo è tuttora...
- Sì, e poi se acchiappi il nome grosso...
- Si traina tutti gli altri, è ovvio.
- Antologie, sì, adesso non se ne vedono molte... Però, tornando al discorso: COSA NE PENSIAMO DELLA CRITICA CULTURALE ITALIANA?
- Serve la critica, perché c’è troppa roba. Molto semplicemente: serve qualcuno che faccia critica, che funga da setaccio e ti dica: “questo sì, questo no”.
- Ci dovremmo immaginare dei critici e delle critiche pagate dallo Stato; sono d’accordo con te rispetto al fatto che, dovendo affrontare un’iperproduzione, la funzione sociale della critica acquista ancora più valore.
- Ci sono delle ragioni forse molto oggettive, tra cui i compensi bassi, le persone che non fanno solo questo lavoro, l’amichettismo... Eppure in un contesto in cui c’è così tanta roba avrebbe davvero senso che la gente ci andasse giù pesante quando serve.
- Quindi, ricapitolando abbiamo: una critica della produzione culturale, l’amichettismo, la funzione della critica…
- Non è poca roba per iniziare.
- No, ho paura che sia addirittura un po’ troppo.
- Ne parliamo la prossima volta?
- Sì dai. Vado a pagare il caffè e lo strudel.
I Borghi più belli d’Italia
23. Pietrapertosa
24. Tremosine sul Garda
25. Alessandro Borghi
26. Lavabi Borghi
27. Oratino
Uomo che piange
di Cristiano Brignola
Prima testimonianza: il padre di famiglia
Avevo sentito queste storie sul tizio che piange alla stazione del 101, vicino a quel centro commerciale dove vanno i tossici, presente?
Compare alle undici di sera, solo in certi giorni. Ho letto sui forum gente che si spacca la testa per capire se c’è un criterio sulle apparizioni, ma niente, le solite teorie da quattro soldi. Se è il giorno giusto, lo vedi lì sulla panchina: è vestito bene, ha questo completo grigio topo con un cappello che gli copre la faccia e che sembra quello di Humphrey Bogart quando fa Marlowe. Si caccia la testa tra le mani e piange, piange come se non dovesse smettere mai o se gli fosse morto qualcuno. Poi, dopo un’ora, un’ora e mezzo, si rialza e se ne va come se niente fosse, come fosse stata tutta una specie di performance. Be
h, una sera è capitato che ero lì. Mi ero seduto sulla panchina, perché avevo certi pensieri miei e avevo bisogno di stare fuori casa. Nemmeno mi sono accorto di quando mi si è seduto vicino, l’ho notato solo dopo i primi singhiozzi.
Mi volto e c’è questo tizio che piange disperatamente. Non so nemmeno dire se fosse vecchio o giovane: aveva la faccia cacciata tra le mani, vai tu a sapere.
Cristo, mi ha fatto sentire a disagio. Cioè, era lì che piangeva e sapevo che dovevo fare qualcosa, no? Ma non sapevo che cosa. Fosse stata una donna, avrei capito, magari le avrei pure chiesto cosa le era successo… ma un uomo che piange a me dà fastidio, non so come spiegarvelo. Non va bene, giusto? Cioè, non è una cosa tanto normale.
Così me ne sono stato lì accanto, che non riuscivo ad alzarmi ma nemmeno a fare niente. Mi sembrava che con quel cazzo di pianto mi avesse messo in trappola. Un paio di volte ho controllato se passasse qualcuno. Mi vergognavo, sapete? Non mi andava che mi vedessero con questo tizio, però non riuscivo ad alzarmi. Forse, se lo avessi fatto, mi avrebbe seguito. Forse sarebbe stato come ammettere apertamente che mi metteva a disagio. Ho cominciato a sentirmi in ansia.
Alla fine, si è alzato lui come se non fosse successo nulla e se ne è andato, proprio come raccontavano tutte quelle storie. Non l’ho visto in faccia, mi ha dato subito le spalle. Sono rimasto ancora un po’ lì e sono tornato a casa.
Avevamo ordinato delle pizze, perché né io né Barbara avevamo voglia di cucinare. Ci siamo visti un film della Disney coi bambini: Avengers, credo o comunque qualcosa coi supereroi, che di solito mette a posto i gusti di tutti quanti in famiglia. Barbara mi teneva la mano sul divano e i bambini erano a mille. Io non riuscivo a smettere di pensare al tizio che piangeva, ed è lì, credo, che le cose hanno cominciato a farsi strane. Di colpo era come se fosse sul divano con noi e di nuovo non sapevo più come muovermi o cosa fare. Solo che non era verso di lui che provavo questo imbarazzo, ma verso i miei familiari. Mi sentivo come un pesce in una boccia: li vedevo, loro vedevamo me, ma allo stesso tempo non ero esattamente con loro. C’è un punto del film, lo abbiamo visto mille volte, in cui ripetiamo la battuta di Hulk a voce alta. Sentii Barbara che la ripeteva, sentii i bambini… le mie labbra invece erano paralizzate, la mia testa inceppata a pensare solo al fatto che non volevo essere lì.
Era impossibile entrare in contatto con tutti loro, proprio com’era capitato con lo sconosciuto sulla panchina. Mi sembravano degli alieni, o magari l’alieno ero io.
Che cosa ci sto facendo qua, ho pensato a un certo punto. E poi: qualcuno mi aiuti.
Mi sono alzato, ho detto che andavo un momento a fumare fuori una sigaretta. Barbara mi ha chiesto se stessi bene e non so nemmeno cosa le ho risposto, forse niente. In ogni caso, non mi ha seguito. Appena fuori, ho cominciato a camminare verso la stazione, ho preso il primo treno, non sono mai più tornato. Senza soldi, senza documenti, senza telefono, visto che mi ero dimenticato tutto a casa. Ma a casa non ci sarei tornato mai più.
Ci sono delle volte in cui vorrei farlo, davvero. Specie quando qui fuori fa freddo o quando la gente ti insulta per strada. Ma dovrei parlare con Barbara: non dico spiegarle cosa sia successo, proprio anche solo aprire la bocca per comunicare. Quando parli con qualcuno, è come se lasciassi una porta aperta da cui può entrare, no? Beh, non so perché, ma dopo quell’incontro sulla panchina, la porta non riesco più ad aprirla.
E allora penso a me che torno a casa, Barbara che è comprensibilmente arrabbiata oppure che cerca di capire cosa mi sia successo. Allora immagino me stesso, tale e quale a com’ero su quella panchina con l’uomo che piange e poi sul divano con lei, con la sensazione di dover dire qualcosa ma non riuscire a farlo.
E tutte le volte finisce che me ne resto qui, a dormire sul marciapiede.
Links
Un post di Claudia Grande su “Il vocale lungo”, podcast di Chiara Valerio per Il Post.
Maestri di niente, dialogo tra @Iosonofrekt e Lorenzo Palloni sulla criticità della critica italiana
Cruising toward my mid-40s has been a wonderful surprise – including in how I dress
Vendite di libri in calo in Italia nel 2025, male anche i fumetti
Valerio Renzi, Gog o della crisi culturale della borghesia italiana
Gerbilloud
Il primo numero di Gerbillo arriverà dopo l’estate e sarà a pagamento, solo che non sappiamo dirvi ancora quanto.
Alla realizzazione di questo Gerbillo hanno contribuito: Antonia Caruso, Silvia Gola, Federico Pugliese, Irene Russo